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Verso una società inclusiva? Un confronto generazionale sul tema della disabilità

Il cambio generazionale ha visto un’evoluzione sul tema della disabilità: diminuiscono i pregiudizi e accresce l’inclusione. Se le nuove generazioni sono maggiormente socializzate sul tema, anche le associazioni sono pronte a lasciare il posto ai nuovi giovani?

La Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità al suo articolo 4 sancisce che ogni stato debba impegnarsi a “garantire e promuovere la piena realizzazione di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali per tutte le persone con disabilità senza discriminazioni di alcun tipo sulla base della disabilità”. Ma, oltre alle normative, come si traduce la conoscenza verso questo tema all’interno della nostra società e, soprattutto, tra le nuove generazioni?

Lo abbiamo chiesto a Daniele Romano, Presidente della sezione Campana di FISH, Federazione Italiana per il Superamento degli Handicap che dalla fine dello scorso Secolo si impegna a sostenere le persone con disabilità e combatte affinché vengano superate le barriere d’accesso

Come e quando nasce la Federazione Italiana per il Superamento degli Handicap?
La nostra Federazione nasce nel 1994 sulla spinta di un gruppo di persone che desideravano dare più forza e voce a chiunque fosse portatore di una disabilità e alle loro famiglie. Da trent’anni, quindi, lavoriamo con questo obiettivo, impegnandoci a tutelare i diritti di queste persone anche grazie a una vasta gamma di associazioni che ci sostengono. La FISH è radicata in tutta Italia: oltre a essere sostenuta dalle più importanti associazioni che si occupano di disabilità, infatti, si è diffusa in maniera capillare su tutto il territorio nazionale, attraverso una dislocazione di Federazioni a livello regionale. Io, ad esempio, rappresento la Federazione campana e sono membro della Giunta esecutiva della FISH da due anni.

Sono dieci anni che fai parte della Federazione. Cosa hai potuto osservare sulle nuove generazioni? Quanto sono interessate alla causa?
Se lo guardiamo dalla prospettiva dell’associazionismo, emerge sicuramente uno spaccato generazionale. Io ritengo, e da sempre sottolineo, che l’impegno dei giovani non viene valorizzato all’interno delle associazioni. Da sempre noto che, dentro queste realtà, i membri con ruoli rilevanti hanno un’età e un’esperienza maggiore, che pesa di più e lascia poco spazio alle nuove generazioni. In questo caso, e un po’ come accade in altri contesti, c’è un problema di “abbandono delle sedie”. Ad aggiungersi al problema, anche il cambiamento delle modalità e dei tempi di lavoro. Oggi, un giovane che vuole approcciarsi al terzo settore deve fare i conti anche con il poco tempo che ha da dedicare a certe realtà, soprattutto perché, in genere, non sono remunerate in alcun modo. Infine, ma non meno importante, è la modalità di linguaggio a essere poco attraente: è ancora obsoleta, rigida e non mobile e fluida come richiesto da un target giovane.

Sottolineare tutto questo è importante. Rivoluzionare il terzo settore è fondamentale: la forma di partecipazione rappresenta non solo un aiuto a terzi, ma anche un motivo di crescita per l’individuo. Io, ad esempio, sono entrato in FISH perché mosso da un motivo strettamente personale, ma grazie all’associazionismo ho capito che tipo di percorso professionale volessi intraprendere, tant’è che oggi lavoro in ambito sociosanitario, occupandomi quotidianamente di disabilità.

Se, invece, allarghiamo il focus e usciamo dalla prospettiva dell’associazionismo, qual è lo spaccato sui giovani?
Su questo, fortunatamente, possiamo dire di essere cresciuti anche grazie a una questione culturale e generazionale. I giovani di oggi hanno molti meno pregiudizi del passato sulla disabilità, anche perché vivono in un mondo sempre che si sta evolvendo: rispetto a 20 anni fa, le persone con disabilità hanno oggi molte più possibilità di muoversi in maniera indipendente. Sta cambiando anche l’idea che stava alla base: prima l’approccio era “caritatevole”, le disabilità venivano assistite; oggi l’approccio è inclusivo, non si vuole assistere ma dare autonomia.

Parlare di “nuove generazioni” è molto generico: in quale età credi sia più complesso lavorare sull’inclusione?
Sicuramente lavorare con i bambini è più facile perché tendono ad avere molti meno pregiudizi. Questi si consolidano con l’adolescenza e poi con l’età adulta, momenti in cui cambiare prospettiva è sicuramente più complesso. Sono dell’idea, però, che non conti tanto l’età quanto il contesto in cui si cresce: i preconcetti si creano, soprattutto, nelle aree meno sviluppate, nei centri isolati o nelle piccole realtà. Inoltre, conta moltissimo anche il fattore “famiglia”, quindi le idee che circondano e influenzano l’individuo.

Credi, invece, che tutti i tipi di disabilità siano “accettate” allo stesso modo e incluse nel gruppo dei pari?
Come sottolineato dall’ONU, non esistono disabilità più o meno “importanti”. Il tema però continua a esistere, almeno nell’approccio. Infatti, continuano a registrarsi forti differenze di inclusione tra quelle che sono disabilità motorie e le disabilità intellettive e relazionali, sulle quali si registra un maggiore isolamento. Voglio però sottolineare che queste non sono sofferte tanto (o solo) a scuola o tra i giovani ma, soprattutto, nella vita di tutti i giorni.

Le faccio dunque la domanda inversa: crede che le persone portatrici di disabilità si sentano effettivamente incluse nella società odierna?
Come anticipato, un cambiamento c’è stato. Oggi le persone con disabilità, solo per fare degli esempi, possono partecipare senza difficoltà agli eventi, muoversi in autonomia e nel mondo del lavoro hanno dei ruoli decisionali. Sono autonome e indipendenti. C’è da dire che questo sia vero soprattutto per le disabilità motorie e sensoriali, ancora molto dobbiamo fare per quelle intellettive. Il passo in avanti deve essere fatto non solo a livello istituzionale e normativo, ma anche a livello culturale. Parlo di “cultura” riferendomi a tutti, anche a chi ogni giorno è a contatto con persone con disabilità: molte volte sono le stesse famiglie ad avere timore per il soggetto tanto che, pensando di proteggerlo, lo privano della possibilità di emanciparsi.

Personalmente, ciò che vorrei vedere, in maniera forse utopistica, è il raggiungimento di un’inclusione non più richiesta o cercata, ma spontanea. Andiamo ancora troppo alla ricerca di “momenti dedicati” attraverso atti “caritatevoli”. Ad esempio, non ci deve essere lo spettacolo che include le persone disabili, ma solo “lo spettacolo”, in cui tutti partecipano senza che siano sottolineate le differenze.

Rispetto a una percezione di lungo periodo, però, un cambiamento lo abbiamo registrato. Basti pensare che, a differenza di alcuni paesi europei, l’Italia non ha più le cosiddette “scuole speciali”. Questo è un vanto nel nostro paese ma non un traguardo, c’è sempre qualcosa che può essere migliorato.

Che cosa intende con “scuole speciali”?
In Italia, nel 1977, la legge Falcucci ha abolito le classi differenziate. Prima esistevano scuole solo per studenti disabili, che venivano separati dagli altri compagni. In altri paesi queste scuole ancora esistono e molti di loro vengono in Italia a studiare il nostro modello di inclusione.

Come FISH organizzate molti progetti volti a implementare l’inclusività e la conoscenza delle disabilità?
FISH ha elaborato una serie di progetti, gli ultimi hanno visto il tema del welfare che si è concluso lo scorso anno. Il progetto si chiamava “welfare 4.0e si impegnava a un accesso equo e inclusivo a servizi di qualità per tutti i cittadini, con sostegni e prestazioni del welfare destinati a sostenere la persona nella sua libertà e autodeterminazione. Negli anni abbiamo fatto, inoltre, vari progetti anche per le scuole. Uno di questi era chiamato “Le chiavi di scuola”, un concorso a cui potevano prendere parte tutte le scuole presentando un progetto di attività inclusiva realizzato durante l’anno scolastico. Il concorso assegnava ai primi due istituti classificati un premio monetario.

Per quanto riguarda le famiglie, abbiamo varie associazioni ed esperti pronti a dare supporto e a far conoscere le normative scolastiche. Abbiamo anche i nostri portali web e due testate (HandYLex.org e Superando) gratuite e accessibili a tutti. Non prevediamo abbonamenti perché riteniamo che formazione e conoscenza debbano essere gratuiti.

Quali saranno, invece, i vostri progetti futuri?
Come Federazione siamo impegnati sulla Legge Delega sulla disabilità che è stata approvata nel 2021. Su questo, è pienamente impegnato e coinvolto il nostro Presidente, Vincenzo Falabella, punto di riferimento e di mediazione tra la FISH e le istituzioni. Nei prossimi anni, oltre che all’attuazione di questa legge che stravolgerà la normativa attuale, un altro impegno fondamentale e annunciato poche settimane fa dalla Ministra per le disabilità, Alessandra Localelli, e dal Presidente Falabella è il G7 di ottobre in Umbria. Questo sarà il primo G7 a occuparsi di disabilità e questo è il più grande cambiamento, quello che 20 anni fa non ci saremmo mai immaginati!

Per i nostri lettori: come e perché contattare FISH?
Contattateci qualora vi trovaste in difficoltà o aveste necessità di risolvere dubbi sul tema. Conoscere significa tutelare i propri diritti, noi siamo pronti ad accompagnarvi e a supportarvi. Contattarci è facile: fisicamente abbiamo una sede a Roma, ma è possibile raggiungerci anche attraverso i nostri contatti telefonici o dal web (sul nostro sito o sui nostri canali social).