Skip to content

South Working: il futuro delle nuove generazioni sarà nel territorio di origine?

Le città meridionali continuano a perdere le proprie risorse. L’emigrazione non si arresta, ma trova oggi un’alternativa: “South” fa rima con “Smart”, soprattutto se accostato al concetto di “Working”. È così che verrà rilanciato il sud della penisola e del mondo?

Sempre più persone scelgono il sud per riformulare la propria vita e questo è oggi possibile grazie al lavoro a distanza. Il South Working è una tendenza che sta emergendo a livello globale e prevede la scelta di vivere nei paesi più “caldi” del mondo senza però abbandonare il proprio lavoro, quello che può intrappolare gli individui nelle grandi metropoli.

La stessa cosa si è riproposta in piccola scala nella nostra penisola dove, dopo le esigenze dovute alla pandemia da Covid-19, si è ripensato al proprio modo di lavorare. Con l’inizio dell’emergenza – e il conseguente isolamento – si stima, infatti, che siano 45 mila i lavoratori delle grandi aziende del nord che hanno scelto di lavorare in smart working dalle proprie abitazioni al sud. Quello che sembrava inizialmente un obbligo si è rivelata un’opzione possibile, tanto che si è iniziato a pensare che fosse uno dei migliori modi per rilanciare le terre che vedono un futuro stagnante e di povertà – soprattutto sociale.

Secondo un’indagine di Ranstad riportata da Forbes, entro il 2030 gli abitanti del Sud Italia tra i 20 e i 64 anni si ridurranno dell’11% rispetto al 6,7% atteso a livello nazionale. E allora quale migliore soluzione se non quella di incrementare il numero di south worker?

I benefici ai quali porterebbe questa pratica sono numerosi e non si limiterebbero alla sola rivitalizzazione del sud o delle realtà maggiormente marginalizzate. Per prima cosa è indispensabile considerare l’idea del “giving back” permessa dal South Working, ovvero quella di restituire alcune competenze ai territori in cui si è nati ma che non sono stati scelti per vivere e lavorare. Se, infatti, non si potrebbe definire risolto il problema della “fuga di cervelli” – che, anche se a distanza, lavorerebbero sempre per aziende fuori dal territorio – si potrebbe parlare di una più ampia presenza sociale all’interno delle piccole realtà.

Non è un fattore da poco: ciò rappresenterebbe un’opportunità di crescita per le economie locali, una risposta alla congestione dei centri urbani – riducendo inoltre le emissioni di CO2 nell’aria – nonché un risparmio economico dei professionisti interessati. Proprio i lavoratori sarebbero i primi a godere dei benefici proposti dall’iniziativa: sarebbero in grado di scegliere la propria strada senza dover rinunciare alla loro terra, vedendo aumentare quindi in molti casi la qualità di vita.

Un fenomeno che nel lungo periodo è previsto possa evolversi nella dottrina del “work from everywhere”, un movimento internazionale che sta prendendo piede a livello intraeuropeo e che oggi cerca di implementare la flessibilità dei lavoratori e delle lavoratrici all’interno delle aziende.

Il raggiungimento di un così lieto finale necessita però di un intenso lavoro burocratico, culturale e infrastrutturale. Non dimentichiamo, infatti, le difficoltà che oggi si incontrano – soprattutto nelle zone più marginalizzate del Paese – nella costruzione di una rete internet che sia funzionale e permetta di lavorare a distanza senza incontrare difficoltà. Inoltre, il fenomeno del South Work richiederebbe un adattamento a culture professionali e sociali diverse all’interno di una stessa realtà lavorativa, chiedendo alle aziende di riconoscere a tutti gli effetti questa modalità di lavoro. 

È sempre Forbes a mostrare come il 61% delle imprese sarebbe oggi disposta a farlo per contribuire alla crescita, il 48% lo farebbe per accedere a figure professionali difficili da reperire e il 35,5% per ridurre i costi. L’unica vera difficoltà sembrerebbe legata alla creazione di più “presidi di comunità”, ovvero spazi da cui lavorare – coworking, community hub o luoghi di partecipazione – che rispettino le esigenze di socialità tra i lavoratori, incentivando anche un dialogo con le comunità locali. Risulta evidente come gran parte delle realtà intervistate sembrerebbe predisposta a evolvere le proprie pratiche, il che fa ben sperare nell’abbattimento di tutte quelle barriere che sembrano frenare la corsa alla realizzazione del South Work.

Il futuro delle prossime generazioni sarà quindi nel territorio di origine, anche laddove questo offra meno opportunità? Ciò è possibile e auspicabile, non solo per riportare i natii ai luoghi di nascita, ma anche per invertire la tendenza di migrazione interna che continua a non favorire la crescita organica del mercato lavorativo italiano.