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Si fa presto a dire maschio: Mascolinità tossica e stereotipi.L’intervista a Francesco Ferreri

Che cosa significa “mascolinità”? E perché vediamo combaciare questo termine con il concetto di “nocivo”? Con Francesco Ferreri ci siamo interrogati sul perché la narrazione del maschile continui a trasformarsi in un racconto tossico che si ripercuote, prima di tutto, sull’identità degli uomini.

Si fa presto a dire “maschio” e si fa presto anche a riconoscerne i connotati. L’uomo “deve essere” e “vuole essere” Uomo, con la maiuscola, perché la storia ha scelto per lui uno status che non riesce ad abbandonare. Sebbene oggi si discuta molto di genere, si è ancora restii a ripensare quello maschile, il quale mantiene una ormai secolare posizione – apparentemente – inviolabile.   

Nella società odierna notiamo, infatti, “un profondo senso di solitudine e di inadeguatezza che coglie chiunque voglia mettere in dubbio i ruoli di genere e i codici di comportamento a essi legati”. Questo è ciò che si legge nel manifesto di MICA Macho, uno spazio di riflessione on e offline nato nel 2020 per riuscire a cambiare una visione errata di ciò che definisce il maschile e della narrazione che gravita intorno a esso. Un intento ha unito il gruppo e lo ha fatto crescere e conoscere: quello di poter abbattere un muro di stereotipi che quotidianamente imprigionano l’identità delle persone.

Proprio per scoprire cosa si si nasconda dietro a quella che definiamo “mascolinità tossica” abbiamo intervistato un volto di MICA Macho, Francesco Ferreri, antropologo di genere, consulente sessuale e consulente per aziende su tematiche di diversity and inclusion.

Francesco, con Mica Macho lavorate quotidianamente per ripensare alla narrazione nociva del maschile. Ma cosa si intende con “mascolinità tossica”?
Prima di soffermarci sul lato nocivo del termine, è importante ricordare che il concetto di maschile, come quello di femminile, nasce da una convenzione sociale. Da sempre distinguiamo due generi, che solitamente sono considerati complementari, binari, in una parola: opposti. Ma non c’è niente di naturale e oggettivo in questi: a corpi femminili e corpi maschili la storia ha attribuito alcune caratteristiche socialmente e culturalmente ascritte ma che non rispecchiano effettivamente la realtà.

Prendiamo, ad esempio, la nostra cultura, quella occidentale, dove il “gioco dei ruoli” è da secoli pilotato da una visione capitalistico–patriarcale della società. Tutto ruota intorno al guadagno ed è l’uomo a detenerne la priorità e il controllo. Questo ha permesso al genere maschile di ottenere una maggior dose di potere rispetto a quello femminile. Il che mi conduce a dare una risposta alla vostra domanda: la funzione sociale connotata all’uomo ha fatto sì che alla sua figura venissero associate determinate qualità come, ad esempio, forza, coraggio e controllo delle emozioni. Ma proprio questa visione, condotta all’esasperazione, ha prodotto un racconto della mascolinità sbagliato, fino a renderlo nocivo: ciò che accade troppo spesso, infatti, è che sia il genere a definirci, reprimendo così ogni spazio di libertà che abbiamo nella costruzione della nostra identità.

Quale responsabilità hanno gli stereotipi in questo processo?
Nel suo significato originario, stereotipo si traduce con “immagine rigida” e, infatti, identifica una raffigurazione apparentemente immutabile ed estremamente generalizzata e semplificata. Questi ci portano ad accettare delle verità culturalmente precostituite e molto controllate: per questo li riteniamo alla base delle narrazioni tossiche.

La domanda è: gli stereotipi sono sempre sbagliati? No. Ma non rappresentano la verità assoluta. Per questo in antropologia parliamo anche di archetipi, ovvero di immagini che ci aiutano a identificare delle caratteristiche prevalenti a cui tendere o aspirare, ma che non rappresentano delle illustrazioni stringenti che impongono di essere seguite.

Credi che questi guidino ancora oggi la nostra società?
Gli stereotipi continuano ad esistere, seppur mutando nel tempo e in base al luogo in cui sono utilizzati. Solo muovendoci lungo la Penisola ci rendiamo conto di quanto cambino a seconda di chi li utilizza. Per non parlare della loro trasformazione nel corso della storia.

Proprio in riferimento al genere, il campo della moda è ben esemplificativo di come le epoche cambino i cliché ad esso associati. L’utilizzo degli abiti ci conferma che il genere è una convenzione sociale e non biologica. Nel Seicento, ad esempio, alle corti di Francia arriva il tacco, un simbolo di nobiltà e mascolinità importato dai regni persiani. Questo, oltre a essere uno strumento di sostegno durante le cavalcate, restituiva all’uomo una posizione eretta e regale. Con il 1666, l’abito a tre pezzi come uniforme maschile viene introdotto alla corte di Carlo II, accostando per la prima volta la sobrietà alla figura dell’uomo. Intanto, il tacco iniziava a uscire dalla cerchia nobile, per diffondersi tra la borghesia e, in particolar modo, tra le donne. La sfarzosità diventa così attributo esclusivamente femminile, generando uno stereotipo che ancora fatica a morire.

Hai reso evidente come le evoluzioni possano cambiare anche i modi di pensare. La vera rivoluzione della nostra epoca sono i nuovi media: pensi che questi abbiano peggiorato l’uso e la ricezione di stereotipi?
È difficile dirlo, tutto dipende dall’utilizzo che ne viene fatto. I social hanno moltiplicato le esperienze personali, molto spesso apportando dei risultati positivi. Mica Macho ne è un esempio: proprio grazie a queste piattaforme si è sviluppato e ha fatto nascere i suoi incontri di autocoscienza – anch’essi online per permettere la partecipazione di persone da tutta Italia. Questo è esemplificativo di quanto il web possa rivelarsi estremamente funzionale.

È anche vero, però, che i nuovi canali possono ricucire e reinventare una comunicazione proselita e nociva. Molto spesso diventano spazi in cui si ripropone quella che è la fragilità del genere maschile, e quindi la costante necessità di mostrare quanto si è “uomo” glorificando la propria virilità.

Partendo da questi casi, ancora numerosi, capiamo l’urgenza di proporre un racconto alternativo: l’uomo, a differenza degli altri generi, fatica oggi a svilupparsi e a rinnovarsi. Questo lo si intravede spesso all’interno di un’agenda mediatica – e non solo – che si impegna molto a parlare di genere, ma con ancora una “timidezza” a soffermarsi sull’evoluzione del maschile.

Sappiamo, però, che esiste anche una femminilità tossica: quali sono le differenze in questo caso rispetto al genere maschile?
Non parlerei tanto di differenze quanto di similitudini. In entrambi i casi si parla di “nocività” perché la persona persegue un obiettivo, ovvero quello di mantenere uno status e una struttura socioculturale binaria e culturalmente ben definita. È un’azione a favore del sistema, non dell’essere umano. Il femminile tossico cercherà quindi di negare la lotta alla discriminazione di cui discutiamo moltissimo attualmente. Ciò che è interessante sottolineare è che, molto spesso, questi atteggiamenti sono inconsapevoli e ciò dipende da quello che abbiamo precedentemente osservato, ovvero che non siamo in grado di definirci ma è il genere che lo fa per noi.

A proposito di consapevolezza: credi che l’utilizzo degli stereotipi sia sempre intenzionale o può accadere che i soggetti li usino inconsciamente?
Solitamente siamo consapevoli di generalizzare e molto spesso non possiamo fare altrimenti. La società ci restituisce stimoli continui e sarebbe molto complicato dover misurare ogni parola che produciamo. Il problema oggi è che questa semplificazione può prendere il sopravvento facendoci dimenticare, in gran parte dei casi, di domandarci se sia giusta. Questo è ciò che cerchiamo di fare noi antropologi e quello che vogliamo riuscire a ricreare con Mica Macho: ricondurre nella mente delle persone quelle che sono le domande dimenticate.

Ad esempio?
Uno degli stereotipi maggiormente combattuti è il controllo emotivo dell’uomo. Quanto spesso ci chiediamo davvero se un uomo abbia la libertà di piangere, o meglio, quanto spesso chiediamo a un uomo se si senta libero di piangere? Questa è la riprova che nella società molte domande non solo sono lasciate in sospeso, ma disperse nell’oblio. Con i gruppi di autocoscienza crediamo di poter nuovamente ripescare tutto ciò che sembra “non meritare risposta”. Ci interroghiamo su ciò che la persona vuole e lo facciamo perché non esistono spazi culturali in cui è “permesso” farlo.

Per questo condividete anche delle testimonianze sulla pagina che, in qualche modo, rappresentano le “domande perdute” di cui parli.
I racconti delle storie o delle riflessioni maturate dai nostri utenti ci aiutano e ci allenano a riconoscere e combattere lo stereotipo. Sappiamo che questi continueranno a esistere e che nel tempo se ne creeranno sempre di nuovi, ma crediamo che le testimonianze di vita quotidiana possano aiutare a generare una prospettiva caleidoscopica, facendo esplodere la “bolla” che circonda alcuni modi di pensare ancora troppo semplicistici.

L’obiettivo di Mica Macho è rivoluzionario. Ma cercare di combattere gli stereotipi credete possa apportare il rischio di generarne di nuovi?
Dipende dal modo in cui si combattono. Dotare questa “battaglia” di persone competenti restituirà a certe narrazioni il giusto valore, riducendo il rischio di una lettura errata che provochi, di conseguenza, una traduzione nociva. Proprio per questo il nostro gruppo si compone di figure esperte, che da anni lavorano in questo settore e che hanno consapevolezza e sensibilità riguardo al tema.
Utilizzando i giusti strumenti e delle conoscenze certificate può nascere un intenso lavoro culturale che potrebbe rappresentare un punto di inizio per un cambiamento reale.