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I ricordi che sbiadiscono: l’Alzheimer non colpisce solo chi ne soffre, ma anche chi resta a guardare

Il 21 settembre viene celebrata la Giornata Mondiale dell’Alzheimer, istituita nel 1994 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e dall’Alzheimer’s disease international (Adi) per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla patologia e le demenze correlate, promuovendo inoltre la ricerca a supporto delle persone che ne sono affette.

Una malattia che non colpisce solo le vittime, ma anche le persone che gli stanno accanto. I primi segnali possono essere innocui: una dimenticanza, una distrazione, un piccolo momento di confusione. Gli alibi, a loro volta, sono sempre dietro l’angolo, in una società dove l’overload di informazioni regna sovrano, alimentato da velocità e stress. Eppure, dietro quei piccoli “lapsus” possono nascondersi segnali importanti.

I familiari e gli amici di una persona affetta da Alzheimer devono arrendersi di fronte ad una scomparsa di una persona cara: a nulla valgono gli scossoni emotivi, a nulla valgono le insistenze del “…ricordi?”. Accettare che la persona amata stia sbiadendo, come una vecchia fotografia: è ancora la persona che conosciamo, ma non del tutto. Ne rimane una parte, un’ombra. Paradossalmente, ciò che ne resta è un ricordo.

Conoscere la malattia significa riconoscerne i segnali e prevedere gli step successivi, per poter garantire non solo sicurezza ai malati, ma anche conforto a chi resta nel presente. Per questo motivo, è fondamentale dare risalto alle giornate di sensibilizzazione, momento su cui soffermarsi sul valore della memoria e della ricerca. Parliamo di una malattia neurodegenerativa progressiva che provoca una graduale perdita delle capacità cognitive, di orientamento spaziale e temporale, della memoria e delle abilità di pensiero. È una delle forme più comuni di demenza, che colpisce principalmente gli anziani, seppur possa manifestarsi – in casi più rari – anche in giovane età.

Attualmente, secondo i dati presentati dall’OMS, oltre 55 milioni di persone nel mondo convivono con la demenza. In Italia, l’Istituto Superiore della Sanità ha registrato più di un milione di casi, di cui oltre il 50% è attribuibile ad Alzheimer (circa 600 mila individui). Questi numeri sono destinati a crescere, toccando gli oltre 70 milioni di casi entro il 2030.

Affrontare questa malattia, da protagonista o da spettatore, può sembrare un percorso solitario, ma non lo è.

Caregiver: il supporto psicologico per il “non malato”

Quando insorge una malattia con risvolti cronici sul paziente, ancor più nel caso di malattie degenerative, la vita delle persone a lui vicine cambia. Nella Giornata Mondiale dell’Alzheimer è fondamentale ricordare che la condizione di cronicità della malattia generi un forte shock emotivo, che molto spesso sconvolge gli asset familiari e relazionali.

Il caregiver, ossia colui che letteralmente “si prende cura” di qualcuno, diventa un elemento fondamentale nella sopravvivenza del malato.

Nel caso dell’Alzheimer, in particolare, i ruoli familiari spesso si ribaltano: i figli diventano i genitori dei propri genitori, un cambiamento difficile da accogliere per molti. 

In Italia l’assistenza al malato di demenza si è sviluppata prevalentemente all’interno di strutture come ambulatori e day hospital, al fianco dei quali stanno emergendo strutture con personale adeguatamente formato. resta però, stando ai dati dell’Associazione familiare malati di Alzheimer, prevalente la gestione del malato presso la propria abitazione (80%).  Una decisione che sicuramente preserva la serenità del paziente, ma che può far insorgere problematiche non indifferenti nelle persone vicine.

In primis, gli ambienti domestici devono essere ripensati per ridurre al minimo i rischi e permettere agilità nel caso di bisogni improvvisi. Soprattutto, è necessario offrire sostegno all’inevitabile cambio di routine dei familiari: sia che si prendano in carico l’assistenza, sia che debbano alternarsi o far entrare nella loro dimensione familiare un operatore.

L’associazione Alzheimer Italia, ad esempio, ha messo a disposizione sul proprio sito un vero e proprio manuale formativo per aiutare i caregiver a comprendere come comportarsi e come attraversare il difficile momento.

A livello nazionale i tre centri principali sono A.I.M.A. – Associazione Italiana Malattia di Alzheimer, ALZHEIMER ITALIA Federazione delle Associazioni Alzheimer d´Italia e ALZHEIMER Uniti ONLUS ma in tutto il territorio esistono diverse associazioni che agiscono a livello locale e regionale, offrendo ai familiari percorsi formativi e soprattutto supporto psicologico tramite attività di counseling e favorendo la condivisione di esperienze. È dimostrato infatti che chi partecipa ai gruppi di sostegno non solo lo ritenga utile,ma trovi anche un momento di sollievo che può portare ad una riduzione del senso di depressione che spesso colpisce soprattutto nelle prime fasi di adattamento e quando il familiare si ritrova costretto a decidere in merito al ricovero del malato. Si tratta di un momento complesso poiché il familiare si trova ad affrontare emozioni difficili come senso di colpa, dolore, rabbia e depressione.

Chiedere aiuto non è segno di debolezza, anzi. Un professionista del settore può essere il giusto mezzo per riprendere in mano la propria vita e ritrovare una serenità che può portare solo giovamento al nucleo familiare e al paziente.

Rischi e prevenzione
Sebbene non siano ancora state comprese le cause esatte della malattia, si ritiene che una combinazione di fattori genetici, ambientali e abitudini errate possa contribuire al suo sviluppo. In particolare, i fattori di rischio associati alla malattia possono essere divisi in due categorie: i fattori di rischio non modificabili, quindi impossibili da cambiare o da prevedere (come l’avanzare dell’età o la genetica), e i fattori modificabili, ovvero correggibili per rallentare l’insorgenza della patologia. Il Piano Nazionale della Prevenzione 2020-2025 pubblicato dal Ministero della Salute ha dimostrato che tra questi ultimi si contano inattività fisica, fumo, diabete, ipertensione, obesità nella mezza età, depressione e bassa scolarizzazione, tutti fortemente associati all’insorgenza della malattia.

Nonostante al momento non esistano trattamenti causali (ovvero in grado di eliminare ciò che causa la malattia) o atti a fermare il danno cerebrale causato dal morbo di Alzheimer, la comunità scientifica ha studiato e prodotto farmaci sintomatici finalizzati a mitigarne le manifestazioni cliniche. Tra questi, la Federazione Alzheimer Italia ne ha indicati alcuni. In particolare, gli inibitori dell’acetilcolinesterasi (come donepezil, galantamina e rivastigmina) sono indicati nelle fasi lievi o moderate della malattia, poiché aiutano a compensare la distruzione delle cellule nervose. Per le fasi più gravi viene raccomandata, invece, la memantina, un farmaco che protegge dall’eccessiva eccitazione delle cellule nervose. Infine, a fianco di questi ultimi, gli antiossidanti sono fortemente consigliati per intervenire nei processi ossidativi che caratterizzano l’invecchiamento, contribuendo a rallentare la progressione della malattia.

Gli occhi possono essere una sentinella importante

Purtroppo, all’assenza di cure causali si aggiunge la difficoltà, nella maggior parte dei casi, di diagnosticare l’Alzheimer precocemente, che rimane, ad oggi, una malattia di cui sappiamo ancora troppo poco. Proprio per questo medici e ricercatori lavorano ogni giorno per migliorare la vita dei loro pazienti e trovare nuove cure che possano risolvere, in futuro, il problema alla sua radice.

Una una recente ricerca condotta dalla Dunedin Multidisciplinary Health and Development Research Unit di Otago, in Nuova Zelanda, ha scoperto importanti connessioni tra la salute dei nostri occhi e la diagnosi della malattia. Alcune parti della retina, infatti, possono essere considerate come biomarcatori per l’Alzheimer permettendo, così, ai medici di indentificare la degenerazione cognitiva prima che l’età del paziente sia avanzata. Una scoperta fondamentale poiché le malattie neurologiche degenerative legate all’età, purtroppo, vengono diagnosticate solo all’insorgere nel soggetto dei primi sintomi (solitamente problemi di memoria o improvvisi cambiamenti nel carattere).

Lo studio, pubblicato dall’Ophthalmology Times, ha raccolto i dati di 865 partecipanti, tutti di circa 45 anni, esaminandone lo strato di fibre nervose retiniche (RNFL) e lo strato di cellule gangliari (GCL).

I ricercatori hanno osservato che RNFL e GCL più spesse durante la mezza età sono solitamente associate con migliori prestazioni cognitive sia nell’infanzia che nell’età adulta, mentre RNFL più fine sono collegate a un maggiore declino nella velocità di elaborazione delle informazioni.

Proprio quest’ultimo marcatore potrebbe diventare un indicatore della salute generale del cervello, evidenziando il potenziale delle scansioni ottiche per aiutare nella diagnosi di declino cognitivo.

L’Università neozelandese ha dichiarato che sono necessari ulteriori studi di approfondimento, ma i risultati pongono le basi per un nuovo approccio alla diagnosi di una malattia che, purtroppo, conosciamo ancora troppo poco.