Interculturalità: conoscere sé stessi per entrare in contatto con l’altro
Le differenze possono essere fonte di grande ricchezza, ma solo se sono accompagnate da un percorso di educazione e comprensione. Intervista a Cinzia Sabbatini, formatrice interculturale e Presidente della Fondazione InterCammini.
- Come è nata la Fondazione e qual è il suo obiettivo?
La Fondazione nasce nell’autunno del 2015 da una mia idea, frutto del mio background nel campo dell’immigrazione per circa 30 anni e di attività di formatrice interculturale da 20 anni. Il mio desiderio era quello di dare continuità e professionalità alle esperienze che ho vissuto nel campo associativo grazie a delle metodologie formative innovative e contribuire a livello nazionale, europeo e internazionale all’educazione e all’intercultura. Il nome è nato per esprimere proprio questo: “cammini interculturali” poi diventato INTERCAMMINI.
Ci occupiamo prevalentemente di formazione degli operatori che più spesso si trovano a contatto con persone di culture diverse, ma non solo, offrendo loro i metodi per una relazione interculturale che parta dall’esperienza vissuta.
- Cosa si intende per interculturalità?
Di interculturalità ne parlano in tanti e tutti in modo diverso. Per noi rappresenta la conoscenza tra le diversità, sia come pratica che come attitudine professionale e personale. Nella nostra formazione insegniamo a diventare interculturali attraverso un allenamento agli atteggiamenti fondamentali, che sono poi quelli che portiamo nel percorso formativo: decentramento, scoperta del quadro di riferimento dell’altro, negoziazione e mediazione.
Questo è l’obiettivo della nostra formazione che riprende quello che dice M, Cohen Emerique, alla quale ci ispiriamo nella metodologia della formazione interculturale: “L’obiettivo della formazione in comunicazione interculturale sarebbe (..) di suscitare un lavoro di interrogativi, di riflessione su di sé, di presa di coscienza dei propri valori, percorso ben più importante che la conoscenza delle culture, per accedere al riconoscimento dell’altro nei propri valori e così facilitare relazioni di fiducia.(…) Conviene anche che i professionisti del campo sociale e educativo, portatori e trasmettitori di quelli della società, non trattino le divergenze di valori che essi constatano tra di loro e i loro utenti migranti che dopo aver preso coscienza dei loro propri valori.(M. Cohen Emerique).
Ho avuto l’opportunità di essere formata da docenti e formatori che hanno maturato la propria competenza in paesi di più antica esperienza migratoria come Francia e Belgio e hanno sviluppato metodologie innovative per l’Italia che invece più recentemente è diventata luogo di immigrazione in modo consistente. In particolare, mi hanno insegnato a sperimentare su di me e poi a formare gli altri con metodologie efficaci. Un esempio è il metodo degli shock culturali che permette di lavorare in modo più efficace concentrandosi sulla relazione con l’altro “diverso” a partire da sé stessi, cosa che non veniva proposta con la formazione tradizionale. Il progetto di ricerca formativa “dallo shock alla relazione” ci ha portato a elaborare un percorso di formazione alla relazione interculturale che riteniamo fondamentale per chi, per lavoro o per occasioni di vita si trova a contatto con persone di diversa cultura
- Parlare più spesso di contatto tra culture, soprattutto nella quotidianità, potrebbe migliorare l’interculturalità di un paese?
Certo, ma più che parlarne bisognerebbe diventare interculturali, che è diverso perché significa acquisire veramente degli atteggiamenti di apertura al prossimo, quindi decentrarsi, scoprire l’altro e negoziare. Tutti noi abbiamo dei quadri di riferimento culturali, per questo è fondamentale comprendere in primis il proprio per poi scoprire quello degli altri e creare un ponte tra le culture e, finalmente, apprezzare le innumerevoli ricchezze che portano con sé.
- La scuola è un momento di crescita ma anche di costruzione dei rapporti personali. Quali le difficoltà per il corpo docenti per favorire l’integrazione tra alunni di culture differenti?
Lo scoglio più grande è sempre uno: comprendere che tutti hanno dei quadri di riferimento culturale diversi. Gli insegnanti si ritrovano a dover gestire non solo classi formate da ragazzi provenienti da diversi paesi ma anche regioni italiane; anche questo può creare delle discrepanze, perché sono tutte culturalmente diverse. Bisogna cogliere le diversità e non percepirle come un ostacolo, ma solo ed esclusivamente come una risorsa. Per fare questo è necessario un training, non è semplice. Possiamo dire che la relazione interculturale è sicuramente bella, ma anche complessa.
- Quali gli aspetti su cui la formazione degli insegnanti dovrebbe puntare per favorire tale processo? I programmi di studio del nostro paese sono di ostacolo o di aiuto?
Sicuramente i programmi di studio andrebbero rivisti. Se un insegnante volesse cominciare a lavorare in questo campo dovrebbe modificare i punti di vista di insegnamento. Prendiamo come esempio la storia: spesso è eurocentrica, raccontiamo solo la versione occidentale del mondo e tanti eventi importanti degli altri paesi non vengono menzionati. Anche per la letteratura vale lo stesso, dovrebbe essere integrata con autori stranieri che possano apportare altre ricchezze. Ciò che bisogna cambiare è il punto di vista delle materie.
- Qual è la difficoltà maggiore che riscontrare nei vostri corsi di formazione?
Spesso i training interculturali vengono incentrati sulla figura dell’altro e mai su sé stessi ed è proprio qui che si riscontrano le maggiori difficoltà, poiché gli operatori non sono abituati ad uno sguardo introspettivo. È un lavoro difficile ma assolutamente importante per acquisire un approccio interculturale verso l’altro.
- Parlando di integrazione: qual è il ruolo delle famiglie?
Bisogna partire da una distinzione fondamentale: famiglie italiane e famiglie straniere con ragazzi nati e cresciuti qui. Nel processo interculturale entrambe vanno accompagnate, ma l’accompagnamento dei nuclei familiari nel nostro Paese è assente, anche se importantissimo. Pensiamo, ad esempio, alle famiglie straniere che si ritrovano con figli nati e cresciuti in Italia: i conflitti interni sono tantissimi, sia a livello generazionale che culturale. I ragazzi si sentono italiani e vogliono esserlo il più possibile, mentre le famiglie d’origine li portano comunque verso la loro cultura madre. Senza un accompagnamento si creano fratture profonde, oltre a quelle naturali che si presentano in tutte le dinamiche familiari durante l’adolescenza. Sarebbe importante proporre una figura guida per il processo interculturale, soprattutto nelle scuole. Prima c’era un insegnante incaricata dell’intercultura e si utilizzavano molto anche i mediatori culturali, ora c’è quasi niente di questo, a parte in alcune scuole all’avanguardia. L’insegnante, se adeguatamente formato, può sicuramente aiutare ma, purtroppo, loro stessi sono carenti di formazione interculturale poiché sono presi da altri tipi di corsi imposti del Ministero. Dieci anni fa era sicuramente più facile proporre questo processo, adesso, purtroppo, si da importanza ad altro.
- Quali sono le prossime iniziative della Fondazione?
Riguardo alle nostre iniziative, la prossima è il training interculturale, un’esperienza di due mattine dalla durata di 8 ore totali, che vuole dare un assaggio su come lavoriamo e cominciare a sviluppare un allenamento (training) per essere interculturali. Le date sono il 10 e 17 giugno dalle 9 alle 13.
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