Il paradosso Fast Fashion: perché la Generazione Z compra su Shein
La Generazione Z è ampiamente conosciuta per il suo attivismo su diversi temi di attualità, tra cui, ovviamente, il tema della sostenibilità. Eppure, secondo un recente sondaggio, nonostante il 65% dei partecipanti abbia dichiarato di voler fare shopping in maniera sostenibile, un terzo di essi ha ammesso una “dipendenza da fast fashion”
Chi è la Generazione Z
La Generazione Z, formata da coloro che sono nati tra la metà degli anni ‘90 e il 2010, è ampiamente conosciuta per il suo attivismo su diversi temi di attualità, tra cui, ovviamente, il tema della sostenibilità.
Pessimismo e senso di impotenza, associati ad una crescente sfiducia verso le Istituzioni, sono parti inscindibili dell’attivismo di questa generazione che nasce e si sviluppa, in molta parte, online.
Eppure, quando si tratta di fast fashion, questo attivismo sembra passare in secondo piano rispetto all’acquisto di capi alla moda, dando vita al fenomeno detto “il paradosso del fast fashion”.
Nonostante la Generazione Z sia spesso sulla bocca di tutti per le sue manifestazioni ambientaliste e per azioni considerate estreme, come l’imbrattamento dei quadri di Van Gogh avvenuto un anno fa, in un recente sondaggio della piattaforma ThredUp, un terzo dei partecipanti ha, infatti, ammesso di avere una “dipendenza da fast fashion” e 2 persone su 5 hanno dichiarato di aver comprato vestiti con l’intenzione di indossarli una sola volta.
Fast Fashion: l’impatto ambientale
Eppure, l’industria del fast fashion, che attualmente ammonta ad un valore di oltre 120 miliardi di dollari, con una crescita prevista di altri 64 miliardi nei prossimi 4 anni, ha un peso più che notevole sulle sorti del nostro pianeta.
Basti pensare che, ad oggi, l’industria della moda produce ben il 10% delle emissioni globali di gas serra, di cui è previsto un aumento del 50% entro il 2030 e, se nulla varierà nel suo andamento attuale, consumerà il 26% del budget mondiale di carbonio entro il 2050.
Questo settore è, inoltre, responsabile del 20% dei consumi mondiali di acqua nonché della produzione del 10% delle microplastiche presenti nei nostri oceani.
A quanto detto si aggiunge il fatto che il modello “fast fashion” si basa sulla creazione, in quantità enormi, di nuovi design, spesso copiati da designer più famosi.
Solo Shein, ad esempio, aggiunge tra i 2000 e i 10.000 nuovi capi sul suo sito ogni giorno e da questa sovrapproduzione derivano le 100 milioni di tonnellate di abiti gettati via ogni anno.
L’impatto sociale
L’impatto ambientale va sommato a quello sociale, i cui effetti ricadono soprattutto, ma non solo, sui paesi in via di sviluppo; il report del Dipartimento del Lavoro americano ha trovato evidenze, infatti, di lavoro minorile e forzato in Cina, Argentina, Bangladesh, Brasile, India, Indonesia, Filippine, Turchia e Vietnam.
Non a caso, l’agenzia no profit Remake ha dichiarato che l’80% di questi abiti sono prodotti da donne di età compresa tra i 18 e 24 anni, in luoghi dove, per sopperire alla richiesta pressante dell’industria, i lavoratori fanno turni anche di 18 ore, vengono pagati pochissimo e in pessime condizioni di sicurezza.
Solo 10 anni fa, in Bangladesh, a Dhaka, il crollo di un’industria tessile aveva causato la morte di più di 1000 persone e ne aveva ferite più di 2000, molti di loro minorenni rimasti disabili a vita.
L’incidente aveva scosso l’opinione pubblica eppure, ad oggi, l’industria della moda nel report Global Slavery Index 2023 di Walk Free sul rischio di schiavitù moderna è preceduta solo da quella tecnologica.
Allo stesso modo, nel 2011 Greenpeaceaveva denunciato l’utilizzo di coloranti tossici in diversi brand, ma solo di qualche mese fa è l’inchiesta di CBC Marketplace che ha evidenziato la presenza di piombo, PFAS e ftalati nei vestiti di Shein.
Dunque, nonostante inchieste e report sui danni dell’industria fast fashion, cui si aggiunge anche il recente scandalo delle influencer recatesi a Guangzhou, nulla sembra scalfire la presa di questi brand sulla Generazione Z, come prova il fatturato di 23 miliardi di dollari raggiunto da Shein nel 2022.
A cosa è dovuto il paradosso
Tra i fattori che portano a questa apparente dissociazione tra morale e azione l’influenza dei social media è sicuramente nei primi posti.
Nonostante la presenza sempre più sostanziosa di influencer vegani o che promuovono uno stile di vita sostenibile, tramite il riciclo, l’acquisto di brand green o di abiti di seconda mano, i social ed in particolare TikTok e Instagram sono anche il primo veicolo di diffusione dei brand fast fashion.
Qui, infatti, cavalcando velocemente i trend del momento e tramite una presenza pervasiva e costante fatta di pubblicità ma anche, e soprattutto, di contenuti organici realizzati da diversi creator, le informazioni riescono a raggiungere il loro target più efficacemente.
Basti pensare che, su TikTok, l’hashtag #Shein ha raccolto ben 73 miliardi di visualizzazioni e il neo arrivato Temu ne ha già accumulate 4,8 miliardi.
Il secondo fattore, altrettanto importante, è invece di ragione economica: infatti, mentre gli stipendi, in media, hanno visto un calo, i costi della vita non hanno fatto altro che alzarsi, a ciò si associa poi il costante senso di instabilità dato dal mercato del lavoro e dalla situazione globale.
Comprare a poco prezzo risulta quindi una soluzione appagante e veloce.
Molto più di un semplice paradosso, quello del fast fashion è un dilemma morale la cui risposta si trova solo in un cambio radicale di un’industria che, per ora, non sembra disposta a cambiare.